Archivio per settembre, 2010

La polveriera di Silwan

Posted in Palestina with tags , , , , on settembre 25, 2010 by Maria Rubini

Sono ore decisive per il negoziato voluto da Obama: sulla moratoria nella costruzione degli insediamenti si sta cercando un compromesso che permetta a Netanyahu di non dire che il blocco prosegue, ma di fatto fermando comunque le nuove costruzioni almeno fuori dagli insediamenti più grandi. Il fatto più importante della settimana, però, è un altro: nelle ultime ore a Gerusalemme è scoppiata con una puntualità impressionante la «bomba a orologeria» Silwan. Offrendo un’idea molto chiara di che cosa succederebbe se questo negoziato fallisse.

La notizia è stata tenuta incredibilmente bassa da alcuni media italiani e così non è affatto scontato che tutti la sappiano: mercoledì ci sono stati scontri molto violenti a Gerusalemme dopo che all’alba un palestinese è stato ucciso da una guardia giurata israeliana nel quartiere di Silwan, quello a cinquecento metri dal Muro del Pianto al centro della cosiddetta «guerra degli archeologi».

Nel cuore di questo quartiere arabo di 50 mila abitanti in questi ultimi anni è stato infatti costruito un nuovo parco archeologico chiamato City of David perché qui l’archeologa israeliana Eilat Mazar avrebbe trovato le rovine del palazzo del re Davide (il condizionale è d’obbligo, perché altri archeologi israeliani contestano questa tesi; e va anche detto che – trattandosi di edifici di tremila anni fa – tutto ciò che si vede sono alcune pareti diroccate di non facile interpretazione). In nome di questi scavi è stata completamente sconvolta la vita di un quartiere dove vivono 50 mila arabi. Ma non solo: la gestione del sito è stata affidata a Elad, un’associazione legata al movimento dei coloni che – contemporaneamente – mira a portare a vivere in questa stessa area famiglie ebraiche. Dalla stessa Elad dipendono le guardie private di sicurezza che sorvegliano il parco archeologico.

In questa situazione già tesa la municipalità di Gerusalemme che cosa fa? A giugno il sindaco «laico» Nir Barkat, per espandere il parco archeologico, approva un piano che prevede la demolizione di 22 case palestinesi a Silwan, appellandosi alla solita scusa che sono abusive (peccato che in quarant’anni la municipalità non abbia mai dotato Gerusalemme Est di un piano urbanistico e quindi come farebbero a essere legali?).

Proprio qui, dunque, mercoledì mattina alcuni arabi avrebbero accerchiato l’automobile di una guardia israeliana e questi – sentendosi in pericolo – avrebbe sparato per difendersi. Prendiamo pure per buona questa ricostruzione (che peraltro i palestinesi sostengono sia falsa). La domanda diventa: è solo un caso che tutto ciò avvenga proprio a Silwan? Non è una follia pensare che un intervento del genere – in cui si cancella tutto ciò che esiste per riportare una parte della città a ciò che era secoli fa – passi in maniera indolore in una città contesa come è Gerusalemme? Eppure – come si può leggere nella notizia che rilanciamo dal blog israeliano Coteret – non più di una settimana fa il governo Netanyahu ha destinato altri 2 milioni di shekel allo sviluppo del parco archeologico della City of David.

Oggi Haaretz pubblica un editoriale molto forte intitolato «Il governo deve smetterla di finanziare gli zeloti a Gerusalemme». «Con la scusa degli scavi archeologici e di restaurare la gloria di un tempo – si legge – l’associazione Elad sta cercando di mettere le mani su gran parte del villaggio di Silwan, che contiene la City of David. Ma non avrebbe neanche potuto pensare di farlo senza l’assistenza di strutture pubbliche come l’Israel Nature and Parks Authority, che ha ceduto l’amministrazione del sito a Elad, la Municipalità di Gerusalemme, che ha offerto il suo aiuto, e la collaborazione dell’Israel Antiquities Authority».

Dopo gli scontri di mercoledì (continuati in parte anche giovedì) adesso c’è una calma tesa a Silwan. Ma è una vicenda importante da tenere presente in queste ore. Spiega infatti due cose fondamentali: la prima è che gli insediamenti non spuntano mai dal nulla e in un posto qualsiasi; dietro c’è sempre un disegno preciso e con responsabilità precise. La seconda è che anche questi progetti sono un’arma che può arrivare a uccidere. Ecco perché disinnescarla oggi è così importante.

Clicca qui per vedere le immagini degli scontri inviate dai blogger e pubblicate sul sito del New York Times

Clicca qui per consultare il sito internet della City of David

Clicca qui per leggere la notizia rilanciata da Coteret

Clicca qui per leggere l’editoriale di Haaretz

di Giorgio Bernardelli

su Terrasanta.net

Benjamin spalle al muro

Posted in Palestina with tags , , , , on settembre 17, 2010 by Maria Rubini

Si avvicina il fatidico 26 settembre, il giorno in cui scade la moratoria per le nuove costruzioni negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Come ormai tutti sappiamo è il passaggio decisivo per vedere se i negoziati diretti tra israeliani e palestinesi voluti dalla Casa Bianca sono una cosa seria oppure no. La novità del giorno è che l’amministrazione Obama ieri pare aver messo sul tavolo una proposta per risolvere l’empasse che – se confermata – dimostrerebbe che stavolta a quei colloqui c’è davvero un mediatore che fa il suo mestiere.

L’indiscrezione (sul contenuto dei colloqui tenuti negli ultimi giorni a Sharm el Sheik e a Gerusalemme le fonti ufficiali non parlano) è uscita dal quotidiano arabo stampato a Londra al-Sharq al-Awsat: il segretario di Stato Hillary Clinton avrebbe chiesto di stabilire un termine di tre mesi entro i quali accordarsi sulla questione dei confini dei due Stati. Nel frattempo la costruzione di nuove case negli insediamenti in Cisgiordania rimarrebbe congelata. Però dopo – una volta stabilito una volta per tutte che confini hanno i famosi «blocchi di insediamenti» che Israele terrebbe, offrendo in cambio al futuro Stato palestinese compensazioni territoriali – lì dentro (e solo lì dentro) potrebbe edificare quello che gli pare, senza più discussioni, anche mentre il negoziato va avanti su tutti gli altri punti (status di Gerusalemme, sicurezza, profughi, gestione delle risorse…).

Mi sembra una proposta assolutamente di buon senso. Di quelle che mirano a togliere alibi dal terreno e vedere chi – al di là delle parole – ha intenzione di fare sul serio. Da tempo vado dicendo che con 300 mila coloni ormai in Cisgiordania bisogna smetterla di parlare genericamente di «insediamenti». Mille nuove case a Modin Illit sono un fatto molto meno significativo di dieci costruite a Beit El o a Hebron. Per capirlo può essere utile guardare lo schema che proponiamo tra i link e che è stato realizzato dal Christian Science Monitor: spiega bene che cosa sono Modin Illit, Ma’ale Adumim, Betar Illitt, il Gush Etzion e Ariel e perché li si definisca come «i blocchi». Perché il grosso dei coloni si concentra in questi insediamenti che sono – a parte Ariel – molto vicini alla Linea Verde e collegati senza più soluzione di continuità al territorio di Israele. Sono quel famoso 5 o 6 per cento della Cisgiordania che – nelle trattative condotte con Olmert e Tzipi Livni – l’Autorità Palestinese avrebbe dovuto cedere a Israele in cambio della terra necessaria per realizzare il corridoio di collegamento con Gaza.

Proprio sui «blocchi» – dicevano alla vigilia dei colloqui fonti a lui vicine – il premier isrealiano Benjamin Netanyahu avrebbe provato a fare leva per non cedere né ai falchi della sua maggioranza né ad Abu Mazen: la moratoria sulle costruzioni è finita – avrebbe detto – ma ci impegniamo a non costruire fuori da queste cinque aree. Al tavolo – però – Hillary Clinton ha rilanciato, chiedendo in pratica di giocare a carte scoperte. Del resto – se, come sembrerebbe, il discorso non riguarda Gerusalemme Est – le mappe non sono così difficili da stendere. Il problema vero è farle digerire alla propria opinione pubblica.

La delegazione palestinese ieri avrebbe dato il suo assenso all’ipotesi della Clinton, mentre Netanyahu avrebbe preso tempo. La verità è che il segretario di Stato americano ha messo il premier israeliano davanti alle sue responsabilità. Gli ha chiesto di comportarsi da statista e non da oracolo: nessuno, infatti, nemmeno all’interno del suo governo, oggi ha la più pallida idea di come sia fatto lo Stato palestinese che ha in mente Bibi. Lo sottolineava molto bene qualche giorno fa su Haaretz Akiva Eldar in un articolo in cui spiegava come oggi credere che Netanyahu abbia davvero intenzione di scommettere sulla pace con i palestinesi sia un vero e proprio «atto di fede».

«Ripassa di qui con una mappa – gli ha detto sostanzialmente la Clinton – e nel giro di tre mesi il problema degli insediamenti si sarà risolto da sé». I casi adesso sono due: l’ipotesi numero uno è che Netanyahu lo faccia. A quel punto il suo governo è finito, perché l’ala più vicina ai coloni non accetterà mai un passo del genere; ma in questo caso come farebbe Tzipi Livni a non andare in soccorso con i voti di Kadima a un governo guidato da un Netanyahu così? L’alternativa (purtroppo molto più probabile) è che Netanyahu non lo faccia. A quel punto, però, i negoziati diretti sarebbero già finiti.

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot in cui si riferisce la proposta di Hillary Clinton

Clicca qui per leggere le schede realizzate dal Christian Science Monitor

Clicca qui per leggere il commento di Akiva Eldar su Haaretz

di Giorgio Bernardelli

pubblicato su Terrasanta.net

Dove sbuca il negoziato?

Posted in Palestina with tags , , , on settembre 6, 2010 by Maria Rubini

Ma alla fine che cosa possiamo aspettarci da questo negoziato diretto tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese, e capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen), iniziato la settimana scorsa a Washington e destinato a proseguire con un secondo incontro il 14-15 settembre a Sharm el Sheikh, in Egitto?

È l’interrogativo che ci siamo posti un po’ tutti in questi ultimi giorni. E i punti di domanda aumentano se si considerano i due attacchi palestinesi contro i coloni avvenuti nei giorni scorsi in Cisgiordania e rivendicati da Hamas (quattro i morti a Hebron) e la scadenza della moratoria per le costruzioni negli insediamenti, fissata al 26 settembre.

È scontato che in Medio Oriente ci sia parecchio scetticismo intorno a questi colloqui. Questo non significa, però, che la fase appena apertasi sia priva di interesse. Alcuni articoli usciti in questi giorni in Israele e in Palestina ci aiutano, come al solito, a capire il perché.

Innanzitutto è molto importante quanto sta accadendo dentro il governo israeliano: il grande sconfitto in questo momento è il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Per la prima volta nella storia di Israele, infatti, un governo della destra entra in una trattativa che ha per tema il cosiddetto «status finale», cioè la definizione di quelli che dovrebbero essere i profili definitivi dei famosi due Stati di cui tanto si parla. Lo avevano fatto Rabin, Peres, Barak – e sappiamo tutti, purtroppo, com’è finita – ma sempre sotto il fuoco del Likud, che li attaccava dicendo che prima viene la sicurezza e solo dopo si potrà negoziare. Neanche lo Sharon ultima maniera aveva mai pensato di spingersi così avanti. Netanyahu invece, almeno a parole, ha accettato questo passo. E lo ha fatto tagliando fuori completamente il suo ministro degli Esteri, che puntualmente – infatti – dichiara ai quattro venti che non si può arrivare a un’intesa con i palestinesi. Non ci vuole molto a immaginare che se il negoziato dovesse andare avanti sul serio proseguirà con un altro governo.

Ma il condizionale è d’obbligo. Perché come osserva con un’immagine acuta Eitan Haber nel commento che rilanciamo qui sotto, «Netanyahu oggi è un giocoliere che sta facendo ruotare dieci palle sulla sua testa». Però – continua l’analista israeliano – «c’è il rischio che gli cadano tutte per terra. Perché in una trattativa del genere c’è bisogno di un leader, non di un fenomeno del circo». Può essere interessante leggere questo commento abbastanza impietoso in parallelo con una dichiarazione rilasciata dal premier palestinese Salaam Fayyad alla vigilia dell’incontro di Washington e che riprendiamo da Haaretz: «Questa volta – dice l’uomo politico palestinese – Netanyahu dovrà dirci una buona volta qual è lo Stato palestinese che ha in mente».

Personalmente credo che questo sia il nodo veramente importante. Non mi faccio grandi illusioni sull’esito finale della trattativa: le posizioni sono troppo lontane. Però se questo negoziato servisse anche solo ad arrivare a un «piano Netanyahu» che non fosse più una vaga dichiarazione di principi ma una mappa con dei confini chiari (anche se inaccettabili per Abu Mazen), sarebbe un passo in avanti. Oggi una cosa del genere non esiste ed è proprio per questo motivo che in Israele ci può essere un governo come quello attuale. Un «piano Netanyahu» sarebbe un elemento di chiarezza e probabilmente porterebbe a una spaccatura nella destra israeliana, dove in molti non sono disposti affatto ad accettare uno Stato palestinese.

Sull’altro fronte è invece interessante il commento di Daoud Kuttab riportato dal sito palestinese Miftah. L’analista arabo – pur condividendo i tanti motivi di scetticismo – invita a leggere il negoziato in parallelo con i passi in avanti compiuti negli ultimi mesi nel processo di costruzione delle istituzioni palestinesi. È un dato di fatto che oggi in Cisgiordania l’Autorità palestinese sia più forte di dodici mesi fa. E nei piani di Fayyad c’è sempre anche il piano B: nel caso il negoziato dovesse andare male, una volta dotato di fondamenta un po’ più solide, potremmo proclamare lo Stato palestinese e chiedere il riconoscimento internazionale. Era la minaccia che Arafat aveva balenato più volte durante gli anni di Oslo. Ma era spuntata in partenza dal fatto che quello di cui si parlava era un Paese nel caos e in balia delle elemosine altrui. Con una Palestina dove c’è più ordine e l’economia comincia a far registrare trend interessanti, assume tutto un altro significato. Ed è un aspetto che va tenuto presente anche per capire la reazione di Hamas. Le violenze contro i coloni non sono solo contro Israele; sono soprattutto un attacco alla credibilità dell’Autorità palestinese che Washington fino a ieri elogiava per come controlla i Territori. Se dovessero continuare davvero per Abu Mazen e Salaam Fayyad sarebbe un problema molto serio.

Giorgio Bernardelli

Pubblicato su Terrasanta. net

We are not starting from Zero

Posted in Palestina with tags , on settembre 3, 2010 by Maria Rubini

“We are not starting from zero. We have the legacy of previous negotiations between the Palestine Liberation Organization and the Government of Israel during which we already explored all possibilities and diagnosed all issues”, said President Mahmoud Abbas in the re-launching ceremony of the direct negotiations in presence of U.S. Secretary of state Hillary Clinton and the Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu in the U.S. Department of State.

The speech reads:

Mrs. Hillary Clinton, US Secretary of State,

Mr. Benjamin Netanyahu, Israeli Prime Minister,

Ladies and Gentlemen,           

First, allow me to thank you, Secretary Clinton, Senator Mitchell and your teams for the diligent efforts made over the past months to re-launch the permanent status negotiations between the Palestine Liberation Organization and the Government of Israel.      

 Ladies and Gentlemen,

As we launch these negotiations today, we recognize the many obstacles that face us and the difficulties that may arise during these negotiations, which are to conclude within a year and lead to an agreement that achieves a just and lasting peace based on international law and legitimacy.         

However, what inspires us to succeed in these negotiations and what builds our confidence is that the path to achieving peace is clear. It is the path of international law.

The parameters of a just and lasting peace are already established under relevant UN Security Council and General Assembly resolutions, Quartet statements, the positions of the European Union, and the Arab Peace Initiative. Collectively, these represent for us the international consensus that has formed around the terms of reference, the principles and goals of the negotiations.

We, Ladies and Gentlemen, are not starting from zero. We have the legacy of previous negotiations between the Palestine Liberation Organization and the Government of Israel during which we already explored all possibilities and diagnosed all issues.           

We will address all permanent status issues (Jerusalem, refugees settlements, borders, security, water, and the release of all Palestinian prisoners) to bring an end to the Palestinian-Israeli conflict, including an end to the occupation of all Palestinian territory that began in 1967, the establishment of the state of Palestine alongside the state of Israel, and security and safety for the two peoples and for all others in the region.

 We reiterate our commitment to carry out all our obligations, including on security and incitement, we call upon Israel to stop all settlement activities, lift its siege on the Gaza Strip in its entirety, to stop all acts of incitement and to abide by its other obligations.                        

 Ladies and Gentlemen,                

Today, I reiterate what I emphasized in the White House meeting yesterday before President Obama, President Mubarak and King Abdullah. The Palestine Liberation Organization is taking part in these negotiations in good faith and with absolute seriousness and determination to achieve a just peace, which will guarantee the freedom and independence of the Palestinian people.  We will not relinquish our rights and claims, including our rights to the land, and we will continue to insist on a just solution for Palestinian refugees in accordance with international law.

With you, we wish to inaugurate a new era of peace, justice, security and prosperity for all in our region.