Jaime Facundo Mendoza Collío aveva 24 anni, era sposato e aveva un bambino di soli 4 anni. Un colpo di arma da fuoco lo ha raggiunto alla schiena durante un’occupazione di terra, il 12 agosto scorso. A sparare è stato un sottufficiale del Grupo de Operaciones Policiales Especiales (Gope) dei carabinieri cileni, un corpo d’élite addestrato nella lotta contro pericolosi criminali e terroristi. “Molto appropriato, come si nota, per reprimere azioni e mobilitazioni sociali in difesa dei diritti ancestrali del popolo mapuche”, commenta sarcasticamente Juan Jorge Faundes sulla rivista Punto Final, complimentandosi, altrettanto sarcasticamente, con il ministro dell’ Interno Edmundo Pérez Yoma e con quello della Difesa Francisco Vidal.
L’assassinio del giovane weichafe (guerriero) mapuche Jaime Facundo Mendoza Collío non è una novità. Prima di lui era già caduto Matías Catrileo, studente universitario mapuche ucciso durante l’occupazione di un fondo agricolo il 3 gennaio 2008, sempre per mano del Gope, e, ancora prima, Alex Lemun, studente mapuche di appena 17 anni, assassinato il 7 novembre 2002 dai carabinieri nell’ambito di un’azione di recupero di una terra ancestrale. “I mapuche – sottolinea Juan Jorge Faundes – sono stati vittime di un’occupazione militare (alla fine del XIX secolo) che ha usato metodi atroci (impalando donne). Sono vittime di una violenza strutturale che li ha condannati al minifondo e alla povertà (XX secolo). I culcules e cultrunes (strumenti musicali mapuche) di un popolo oppresso che esercita oggi il diritto sacro alla ribellione gridano con Isaia: ‘Qual diritto avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?’ (3:15). ‘Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi’ (5:7). I cinque milioni di ettari usurpati varrebbero oggi 20 miliardi di dollari a prezzo di mercato. Da qui dovrebbe cominciare il dialogo. Più un indennizzo morale per danni e violenze… Riparazione politica, storica, economica e morale: il prezzo della pace”.
È questa storia di violenza – resa più atroce dalla devastazione di un mondo di bellezza e di armonia – che viene mirabilmente raccontata, sulla base della visione mitica del popolo mapuche, dal sociologo cileno Tito Tricot, direttore del Centro de Estudios de América Latina y el Caribe (Cealc), nell’articolo La antigua guerra a muerte contra el mapuche (Rebelión, 20/08), di cui di seguito ne riporto uno stralcio.
Che cos’è la proprietà?
“Io sentii la glaciale ferocia del suo sguardo – racconta l’anziano di Curarrehue – un pomeriggio di primavera in cui volli domandargli il perché di tanta crudeltà. Non vi bastano, chiesi, le vostre terre e i vostri animali? ‘Questa è la mia terra’, gridò con voce di tuono, ‘il mio quadro, la mia scultura, la mia acquaforte, il mio sacco, la mia vetrata, il mio mosaico, il mio libro aperto, il mio orgasmo cosmico. La mia proprietà’.
E cos’è la proprietà?, gli chiesi sconcertato. Mi guardò con disprezzo dalle altezze della sua ciclopica grandezza per ridere burlescamente: ‘tutto quello che non si può toccare per i secoli dei secoli, amen’. E cos’è che non si può toccare per i secoli dei secoli, amen?, indagai. Sempre con disdegno e fastidio per l’interruzione della sua siesta, rispose: ‘i boschi, la terra, i laghi, i fiumi, le montagne, il rame, l’argento, il carbone, i mari, i pesci, l’aria, gli uccelli, l’acqua, le case, i cavalli, le galline, i tacchini, gli agnelli, il grano, i piselli, le piante, le cascate, le risate, le mani, le gambe, l’amore, i denti, il ventre materno, i figli, i sogni, la morte. Tutto quello che è ricchezza o può diventare ricchezza’, elencò annoiato.
Però, dichiarai e reclamai, mentre lo guardavo fisso negli occhi, torbidi come il fiume in inverno, i più antichi degli antichi ci diedero il Meli Witran Mapureducciones, assassinii, torture, esilii, migrazioni, polizie, stragi e Paesi ignoti che piantavano le loro bandiere di seta nel cuore del Wallmapu”. perché facessimo l’amore senza fretta e, sempre senza urgenza, condividessimo i frutti della terra che erano, ci dissero, di tutti e di nessuno. Ci dissero che qui avremmo potuto costruire il nostro Mondo e il nostro Paese. E così lo costruimmo tra due oceani, senza fretta e senza alcuna proprietà, che non conoscevamo; e gli uccelli facevano il loro nido su qualunque albero, i laghi si posavano su inattesi ricoveri, mentre i fiumi fluivano ininterrottamente tra nevai, boschi e scogliere per baciare attoniti il mare, che era anch’esso il mare di tutti. E di tutti era la terra che si poteva toccare per i secoli dei secoli, amen. È la mia parola, gli dissi, e in quel preciso momento, dalla profondità della sua gola d’argento spuntarono fili di ferro, fucili, seghe, coloni, militari,
Nulla fu più uguale
Allora, nulla fu più uguale a prima e l’anziano, con la sua memoria, si rifugiò nella cordigliera, ma non poté più cacciare puma, perché lo perseguitarono, lo rinchiusero, lo imprigionarono, lo radicarono a forza e lo assassinarono in nome della civiltà. Usurparono il Paese Mapuche e polverizzarono il Mondo Mapuche in nome della ragione, della ricchezza e di quella proprietà di cui parlava il dio straniero che gridava la barbarie degli indios.
E gli indios si rifugiarono nei loro silenzi di indios per affrontare l’egoismo wingka (invasore, ndt), e nelle curve dei fiumi, nelle chiome degli alberi, nelle contrafforti della cordigliera e nel fondo del mare custodirono le proprie parole, i sogni, le memorie, gli annunci e le denunce, le virtù e le viltà, le vittorie e le sconfitte, gli amori e i disamori, i canti e i balli, i primi passi e gli ultimi. Nascosero con speciale attenzione il mapudungun, la loro lingua, e l’origine del mondo e le leggi della natura. Tutto, raccontano, in un vulcano in fiamme di cui solo i saggi conoscevano il segreto per evitare che il kimunndt) mapuche si riducesse in braci e cenere. Fu tale la loro sapienza che, nelle notti più opache, dalle loro case, dai campi e dai monti, uscivano silenziosamente uomini, donne, anziani e bambini per dirigersi al vulcano della memoria. Lì recuperavano parole, riti, nomi, storie e, soprattutto, i sogni di libertà che li mantenevano in vita mentre il wingka (conoscenza, perforava loro l’anima. I mapuche si rifiutavano di morire o di scomparire nell’ira dei venti spietati che venivano dal nord a cavallo, sui cannoni, con gli elmetti, le sciabole e le baionette, i fucili e i revolver. Che venivano dalla guerra per fare un’altra guerra: della civiltà contro la barbarie, della cilenità contro la mapuchità.
E ci chiamano terroristi
Guerra a morte, fratello, intronizzata nel Paese Mapuche occupato dalle forze armate. Guerra a morte, fratello, acquartierata nel Mondo Mapuche occupato dalla violenza cilena. E il nostro territorio usurpato lo chiamarono frontiera, quando in realtà la frontiera erano loro; ci chiamarono selvaggi quando, in realtà, i barbari erano loro. Lo chiamano conflitto mapuche, quando in realtà il conflitto è loro, che temono di riconoscere la propria indianità.
Oggi ci chiamano terroristi, quando il terrore lo seminano loro nelle comunità con le loro incursioni e violenze e gas lacrimogeni e spari e morti. Perché i cileni hanno cominciato ad assassinare mapuche nel XIX secolo, hanno proseguito nel XX secolo e hanno continuato nel XXI secolo. Matías Catrileo, Alex Lemun e Jaime Mendoza sono caduti nel nostro Paese occupato dalla forza militare. È per la proprietà che non conoscevamo, per gli alberi e le acque, i minerali, i pesci, gli uccelli. E per la terra che ci hanno dato per sempre i più antichi degli antichi a Collipulli, Temucuicui, Lumako, Neltume, Liquiñe, Lleu-Lleu, Cuyinco, Tirua, sulla costa, sulla montagna, nelle valli, che ci hanno dato per costruire il Paese Mapuche e il Mondo Mapuche. “È la mia parola, perché ci lascino in pace, e ci lascino semplicemente essere pioggia o terra o mare”, disse l’anziano di Curarrehue che è la memoria stessa e che camminava nel sud del mondo molto prima dei cileni.