Archivio per marzo, 2011

E la compagnia “Egypt Air” fa sparire Israele dalle sue mappe

Posted in Palestina, Politica with tags , , , on marzo 24, 2011 by Maria Rubini

La notizia, visto il mercoledì tragico, è passata un po’ in secondo piano. Però contribuisce – nel suo piccolo – ad accentuare la tensione che accerchia Israele. Il fatto è che a voler fare le pulci all’incognita Egitto, si scoprono cose interessanti.

Come quella notata dai giornalisti del quotidiano ebraico online“Ynet”: “Egypt Air”, la più grande compagnia aerea egiziana, ha rimosso Israele dalla sua mappa. Non solo come rotta, ma anche come Paese. Per cui, anche se ci sono quattro voli alla settimana verso lo scalo internazionale di Tel Aviv e anche se la compagnia gemella, Air Sinai, fa altrettanto, chi volesse prenotare via Internet i biglietti con destinazione lo Stato ebraico farebbe molta fatica.

A vederla bene, nella “route map” della compagnia il Libano è grande il doppio è arriva praticamente fino a inglobare Haifa e Tel Aviv. E prima che la segnalazione diventasse pubblica nella cartina la Giordania finiva sul Mediterraneo. Con la capitale Amman che, secondo la personalissima idea di mappamondo, sembrava posizionata dove oggi si trova Gerusalemme.

Poi qualcuno, nel giro di poche ore, ha fatto una piccola modifica: ha spostato la città entro i confini giordani. Ma ha comunque lasciato intatti le nuove frontiere d’Israele: lo Stato ebraico è quasi la metà, ed è un tutt’uno con Gaza e la Cisgiordania.

Leonard Berberi

Libia: Noi non firmiamo appelli

Posted in Politica, Società with tags , , , , , on marzo 23, 2011 by Maria Rubini

«Difendere le vittime inermi è doveroso. Quando qualcuno interviene per tutelare i diritti umani e salvare una vita, è una buona notizia. Da quando il samaritano ha soccorso il poveretto incappato nei briganti sulla strada di Gerico, è sempre stato così.
Era dovere della comunità internazionale mobilitarsi per impedire che a Bengasi potesse avvenire un massacro (nel 1996 l’Europa si macchiò di “omissione di soccorso” quando non fece nulla per impedire il genocidio a Srebrenica).
L’obiettivo delle due risoluzioni dell’Onu (n. 1970 e 1973) sulla crisi libica è quello di proteggere i civili, gli insediamenti urbani e garantire assistenza umanitaria. L’uso della forza viene invocato per limitare i danni che già sono in corso sul campo, affermando il chiaro rifiuto dell’opzione di occupazione militare straniera, la priorità del cessate il fuoco e della soluzione politica, il rafforzamento dell’embargo militare e commerciale, il riconoscimento del ruolo prioritario della Unione Africana, della Lega Araba, della Conferenza Islamica.
Ci sono però due cattive notizie. La prima è il ritardo spaventoso (e l’ambiguità) con cui si è mossa la diplomazia degli stati, e la seconda è che l’Onu non dispone di una forza di polizia internazionale permanente ma deve affidarsi, di volta in volta, agli eserciti degli stati membri (articoli 43-49 della Carta della Nazioni Unite, in questo caso Francia, Inghilterra, Stati Uniti).
Quando la parola passa dalla diplomazia alle armi, succede che le operazioni militari si trasformano subito in guerra. E’ quello che sta accadendo in Libia. Gli strumenti utilizzati (bombardieri, caccia, tornado, missili, incrociatori, portaerei, sommergibili, ecc.) sono quelli tradizionali della guerra, gli unici disponibili, pronti, efficienti. Come nei Balcani, come in Iraq, come in Afganistan, viene messa in campo solo l’opzione militare, l’unica che è stata adeguatamente preparata e finanziata. Una cosa è certa: non sarà con un’altra guerra che la democrazia potrà affermarsi nel mondo arabo.
Appelli che cadono nel vuoto
Subito dopo l’annuncio del primo raid aereo, hanno iniziato a circolare in “rete” gli appelli pacifisti. Ci sono quelli “senza se e senza ma” che dicono: “non ci può essere guerra in nome dei diritti umani”; e quelli “realisti” che dicono: “l’uso della forza serve ad impedire ulteriori massacri”.
Noi, Movimento Nonviolento (una realtà attiva dal 1961), non firmiamo appelli che non contemplino una precedente opzione per la nonviolenza costruttiva, né convochiamo mobilitazioni che si limitino a proteste e condanne di ciò che è già avvenuto. Non basta mettere a verbale il nostro “no” alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna aggiungere una parola in più: quando la guerra inizia nessuno riesce a fermarla; bisogna prevenirla una guerra, affinché non avvenga. Lo si può fare solo non collaborando in nessun modo alla sua preparazione.
Quando la prima bomba è stata sganciata, ormai lo sappiamo bene, a nulla serve dire “basta”, essa cadrà e molte altre ne seguiranno. La guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e tali stragi che è assurdo pensare di farla e contenerla. Come in un terremoto, l’unica possibilità – se non si sono adottate serie misure antisismiche – è il “si salvi chi può”. Poi, i sopravvissuti dovranno pensare alla prevenzione per rendere innocuo il terremoto successivo. Ma troppo spesso capita che, passata la prima paura, se ne dimenticano e anche il prossimo terremoto li coglierà impreparati.
Il limite di molti appelli è quello di rivolgersi ai governi e alle istituzioni per chiedere a loro di fare la pace. C’è un’inscindibile correlazione fra mezzi e fini: come possiamo aspettarci scelte di pace da governi (compreso quello italiano) che mantengono gli eserciti e le loro strutture, che finanziano missioni militari, che aumentano le spese belliche, che accettano il traffico legale e illegale di armi? Chiediamo ai governi di ridurre le spese militari, e regolarmente, finanziaria dopo finanziaria, queste spese aumentano esponenzialmente. Insistere in quest’errore di ingenuità diventa una colpa.
La pace non verrà dai governi che utilizzano lo strumento militare, ma potrà venire solo dai popoli che rifiuteranno di collaborare con essi. È a noi stessi, dunque, che dobbiamo rivolgere gli appelli per la pace.
Distinguere la violenza dalla forza
Per uscire dall’apparente contraddizione fra chi è sempre, e comunque, contro la guerra e chi è favorevole, a volte, ad azioni anche armate, bisogna saper vedere la differenza che c’è tra la violenza e la forza; tra la polizia internazionale e l’esercito. Gli amici della nonviolenza sono sempre stati favorevoli al Diritto e alla Polizia, due istituzioni che servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti.
È per questo che da anni sono impegnati, a partire dalle iniziative europee di Alexander Langer, per lo studio, la ricerca, la sperimentazione e l’istituzione di Corpi Civili di Pace. Gli amici della nonviolenza chiedono la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione di una polizia internazionale, anche armata, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore e ristabilire pace e diritto. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, gli amici della nonviolenza sono contro la preparazione della guerra (qualsiasi guerra: di attacco, di difesa, umanitaria, chirurgica o preventiva), contro il commercio delle armi, contro gli eserciti nazionali, contro i bilanci militari e lo fanno anche con le varie forme di obiezione di coscienza. La proposta politica dei nonviolenti è quella di uno stato che rinunci al proprio esercito nazionale, e si impegni a fornire mezzi, finanziamenti e personale per la polizia internazionale di cui si dovrà dotare l’Onu.
La diplomazia la fanno i governi, ma la nonviolenza la fanno i popoli.
Le responsabilità di Gheddafi e dell’Europa
Dobbiamo perciò perseguire con sempre maggiore decisione la strada della distanza da qualsiasi regime che violi i diritti umani e democratici, denunciando con forza le responsabilità dei nostri governi e del loro servilismo davanti a un personaggio come Gheddafi (e al suo gas e petrolio).
Il rais per oltre 40 anni ha occupato la scena con politiche che hanno sponsorizzato ogni tipo di violazione di qualsivoglia diritto, ha nutrito le guerre e le destabilizzazioni che hanno martoriato un buon numero di paesi africani dal Ciad, al Niger, al Burkina Faso, alle sanguinarie guerre di Liberia, Sierra Leone e del Darfur, finanziando le milizie armate. I mercenari al soldo di Gheddafi sono il frutto delle diaspore di oltre 40 anni di destabilizzazione, sono persone che non hanno nulla da perdere.
Lo sbocco per tanti giovani del continente africano, ovvero l’emigrazione, è stata messo dall’Europa sotto la custodia interessata di Gheddafi e della sua polizia che taglieggia, stupra, ricatta, vende e rivende i poveracci che speravano di trovare una via di salvezza al di là del Mediterraneo. Sono migliaia e migliaia i profughi dimenticati del Bangladesh che fuggono dalla Libia verso la Tunisia, nella speranza di un viaggio della disperazione verso casa. Per questi disperati i governi europei non si sono mossi. Così come è passata del tutto inosservata la feroce repressione da parte delle forze armate saudite del movimento che chiedeva libertà e democrazia nel Bahrain (arcipelago del Golfo persico fra l’Arabia Saudita e il Qatar).

Per la pace e la fratellanza fra i popoli
Agitarsi, lamentarsi, angosciarsi, non serve. La prima risposta, immediata, che possiamo dare è quella di offrire soccorso concreto alle vittime, e poi di un rafforzato impegno per sostenere la nonviolenza organizzata. Fra sei mesi si svolgerà la Marcia Perugia-Assisi, nel cinquantesimo anniversario della prima edizione, quella pensata ed organizzata da Aldo Capitini.
All’indomani della Marcia del 24 settembre 1961 lo stesso Capitini volle dare vita al “Movimento Nonviolento per la pace”, per avere a disposizione uno strumento utile al proseguimento delle istanze emerse dalla Marcia stessa e al lavoro “per l’esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, al livello locale, nazionale e internazionale”. Al primo punto del programma del Movimento, Capitini indicò “l’opposizione integrale alla guerra”. Dopo cinquant’anni il cammino deve ripassare da lì. Per questo abbiamo assunto l’impegno, come Movimento Nonviolento, di promuovere questa Marcia, che deve essere l’occasione per “mostrare che la nonviolenza è attiva e in avanti, è critica dei mali esistenti, tende a suscitare larghe solidarietà e decise non collaborazioni, è chiara e razionale nel disegnare le linee di ciò che si deve fare nell’attuale difficile momento”. E poi “pronto, dopo la Marcia, a lavorare ad un Movimento nonviolento per la pace”. Sono parole di Capitini di straordinaria attualità, pronunciate nel 1961 (mentre la guerra infiammava il Vietnam e il Congo), valide per il 2011 (mentre la guerra infiamma l’Afganistan e la Libia).
L’appuntamento è per il prossimo 25 settembre alla Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza fra i popoli. Vogliamo che sia “un’assemblea itinerante”, il momento conclusivo di una discussione/mobilitazione che avviamo da subito. Un passo che ciascuno può fare contro la guerra e per la nonviolenza».

L’eterno nemico

Posted in Politica, Società with tags , , on marzo 8, 2011 by Maria Rubini

Noi israeliani non ce ne siamo nemmeno accorti, ma su entrambi i fronti della grande turbolenza che ultimamente sta investendo un po’ tutto il mondo arabo non mancano coloro che sostengono che la causa sottostante a tutto il caos è, come al solito, Israele.
Le bufale sul tema, variamente assortite, hanno un comun denominatore costante: è la lunga mano di Israele quella che rimesta nella pentola araba, che manipola le ingenue masse arabe e che dirige da dietro le quinte i melodrammi in corso.
Sul versante degli assillati governanti, ci ha pensato la scorsa settimana il presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh ad evocare l’immagine di un nefasto centro di comando localizzato a Tel Aviv che orchestra i vari tumulti arabi. I dimostranti, stando a ciò che ha asserito Saleh rivolgendosi a studenti e accademici dell’Università di Sanaa, altro non sono che lacchè d’Israele “che obbediscono ai suoi comandi e sono al servizio dei progetti sionisti”. L’intemerata di Saleh è giunta un po’ a sorpresa dal momento che il presidente yemenita è considerato filo-americano e relativamente accondiscendente nella battaglia contro al-Qaeda. Destinatario di rilevanti aiuti militari dagli Stati Uniti, Saleh in effetti ci ha poi ripensato e ha telefonato alla Casa Bianca per scusarsi del “malinteso”. Ma la sua requisitoria, fatta davanti alle telecamere, smentisce le sue scuse. Mentre centinaia di migliaia marciavano per le strade dello Yemen chiedendo a gran voce la sua estromissione, Saleh ha evidentemente tentato di infangare i suoi avversari come “traditori” in combutta col nemico. E in ambito arabo, il nemico per definizione non può che essere Israele. “Vi rivelerò un segreto – ha ripetutamente proclamato al suo pubblico – A Tel Aviv c’è il quartier generale delle operazioni che sopraintende all’obiettivo di destabilizzare il mondo arabo. La sala operativa è a Tel Aviv, ed è gestita dalla Casa Bianca”.
Le fantasiose teorie di Saleh possono fare tranquillamente a gara con le classiche panzane diffuse in passato nel mondo arabo, come l’impudente accusa a Israele d’aver architettato e realizzato gli attacchi dell’11 settembre, d’aver avvelenato Yasser Arafat, o che forze aeree americane avessero operato in collusione con quelle israeliane nella guerra del sei giorni del ’67. Si possono liquidare queste menzogne come assurde frottole senza peso, ma le moltitudini che abboccano, nel gran reame arabo-islamico, le elaborano in un contesto ben più sinistro.
Un’altra accusa scagliata contro Israele la scorsa settimana è che quello stesso centro nevralgico di Tel Aviv che avrebbe presumibilmente innescato le vaste rivolte arabe, sta anche malignamente complottando contro i dimostranti anti-regime. Così, ad esempio, la tv al-Jazeera ha preteso di svelare la vera identità dei complici cospiratori che avrebbero consentito al despota libico Muammar Gheddafi di scatenare i suoi mercenari contro la sua stessa popolazione. Ecco qualche passo saliente dalle “rivelazioni” di al-Jazeera, a loro volta avidamente riprese e rilanciate dal sito web della Press TV iraniana, a proposito delle macchinazioni di Israele: “Con l’autorizzazione di Tel Aviv, la società israeliana di distribuzione di armi Global CST ha fornito al leader libico Muammar Gheddafi i mercenari africani per reprimere le proteste anti-governative. Fonti egiziane hanno rivelato che finora la ditta israeliana ha fornito al regime di Gheddafi cinquantamila mercenari africani per attaccare i dimostranti civili anti-governativi in Libia. La ditta di armi – dice sempre al-Jazeera – era stata in precedenza condannata in un paese africano per traffici illegali. Alcune fonti dicono che la Global CST aveva ottenuto in anticipo da funzionari israeliani il permesso di fornire mercenari a Gheddafi. In precedenza il general manager della Global CST aveva incontrato il capo dell’agenzia di intelligence israeliana Aman e il ministro della difesa Ehud Barak, e aveva ottenuto il permesso per tale misura. I rappresentanti della società si sono anche incontrati in Ciad con Abdullah Sanusi, capo dell’intelligence interna libica, per discutere i dettagli dell’accordo finale”. Naturalmente la domanda su perché mai Israele avrebbe anche lontanamente contemplato l’idea di aiutare un nemico giurato come Gheddafi non viene nemmeno posta. Vilipendere qualcuno con il sospetto che sia in qualche modo associato a Israele basta e avanza per gettarlo nel discredito totale.
L’assioma di Israele come onnipresente spauracchio è il vero aspetto inquietante di queste favole surreali, per quanto spassose possano sembrare anche a noi stessi. Le menzogne innescano dinamiche e poi vivono di vita propria. Se nutrite crescono, si moltiplicano e generano ramificazioni incalcolabili. Le menzogne incatenano e schiavizzano. Le ingiustizie fasulle imprigionano e tormentano coloro che ne sono intrappolati. L’autentica libertà – quella autentica libertà che tanti nel mondo arabo così chiaramente desiderano – si può fondare solo sui lumi della ragione, non sull’inganno immerso nell’ignoranza.

Editoriale del  Jerusalem Post